Migranti ( mostra a quattro mani con R.Pietrosanti )

14/03/2000

Galleria Pino Casagrande - Roma

> MIGRANTI  COMUNICATO STAMPA
  Catalogo   Estratto dal Catalogo

La tradizione del nuovo

 

Nulla poteva ritenersi più improbabile di un lavoro intrecciato, a quattro mani, di due artisti così “distanti” tra loro come Roberto Pietrosanti ed Elvio Chiricozzi. Poiché, nonostante la condivisione del quotidiano, come è avvenuto in anni recenti e la contiguità dello studio, il loro intero percorso artistico tendeva a sottolineare le rispettive diversità: dalla loro formazione e dal loro stesso apprendistato, giù sino alla scelta espositiva in ambiti assolutamente antitetici, proprio per il loro essersi da sempre diversificati. L’uno sulla via di una ricercata “astrazione costruttiva” fatta di quella “dinamica delle assonanze” già individuata, l’altro, sulla via di una figuratività che, pur nell’idealizzazione della tipizzazione gestuale, tendeva a rendere sempre più astratto il suo universo figurativo, conservando in quell’insistita monocromia, la memoria di un suo essere saldamente radicato al vissuto, alle lacerazioni dell’esistenza. Alla stessa contrapposizione di due opposte polarità dialettiche mi ha sempre fatto pensare la perentoria intenzionalità progettuale di R. Pietrosanti poco incline a lasciar stemperare le spigolosità se non le apparenti durezze che hanno sempre conferito al suo lavoro un carattere di intangibile assolutezza, sino a renderlo irriducibile ad ambiti particolari di appartenenza. A tutto ciò mi pare di poter affermare si sia sempre contrapposta una più accattivante disponibilità all’ascolto da parte di E. Chiricozzi con la perseguita suadente piacevolezza del suo farsi sismografo, con le salvezze e le cadute che ciò implica, delle miserie e delle grandezze del mondo. Ma, perché queste poche osservazioni non scivolino verso il trascurabile dato caratteriale è opportuno segnalare quella sorta di “rovesciamento” cui i due artisti ci hanno abituati da tempo per cui alla asetticità chirurgica, nel dispiegamento di quella visione del mondo “more geometrico” di R. Pietrosanti si sovrappone il suo sapersi sporcare sino a lasciarsi intridere dalla concitazione del suo essere “homo faber”, con lo sperimentalismo che ne consegue, con gli inevitabili aggiustamenti di tiro necessari per giungere all’esattezza del lavoro. All’asciuttezza ed alla stringatezza delle sue visioni che comunque portano impressa come stimmate la fisicità della materia, E. Chiricozzi giunge invece con una imperturbabilità che poco lascia trasparire del lavoro ossessivo, fatto di continue annotazioni, di quel suo continuo mettere a fuoco in un vero e proprio album all’infinito le innumerevoli varianti in una sorta di coazione a ripetere, che dalla matericità degli appunti di partenza conduce poi, in una dimensione di siderale distanza, l’opera ultimata, sempre più lontana dalle annotazioni di partenza. E proprio questo processo di ribaltamento sta alla base anche di questa esperienza comune per lo spazio espositivo di Pino Casagrande. Ma questa volta il tutto travalica il dato personale per dispiegarsi sul senso stesso del loro fare artistico. Nei precedenti lavori in cui insieme si erano cimentati e che costituiscono l’incipit di questa straordinaria avventura, in fondo la loro attenzione era protesa alla definizione, pur nella sua sottolineata esasperazione dimensionale, di una sorta di sguardo incrociato, in cui comunque le rispettive poetiche si confrontavano nella diversità ma di cui si accettava il loro permanere come cifra di individuale riconoscibilità. Ora non più: entrambi rivendicano come dato ineliminabile la spazialità architettonica in cui andranno ad intervenire. Ma anziché sottolinearne con testimonianze autobiografiche ed autoriali possibili punti di tangenza con il proprio lavoro o sollecitarne qualità impreviste, con la semplice collocazione dei loro lavori, rinunciano alla comoda semplificazione del loro essere “semplicemente” artisti e quindi non si accontentano di sovrapporre ad una spazialità data una loro visione del mondo: preferiscono, unendosi, mutare il senso dell’esperienza di quel luogo. Eccoli allora modificare, proprio nel passaggio limite, quello più problematico, tra le due parti della galleria il rapporto tra le due, con l’elementarità di un oggetto trilitico che nel suo sottolineare l’idea del passaggio ne riduce l’ampiezza, e nel suo farsi oggetto di laconica monumentalità, in realtà, tende ad annullare l’esperienza dell’al di qua per caricarsi di attese millenaristiche nei confronti dell’al di là. Questa sorta di azzeramento conferisce alla prima stanza il ruolo di semplice luogo di condensazione emotiva in cui la presenza discreta di ciò che avverrà altrove è indicata dalla “gravitas” del modello con la sua caleidoscopica serie di rimandi.

Tutto pare dunque concentrarsi nell’abbacinante luogo di sola luce rappresentato dallo spazio dove accade l’evento vero e proprio: ed è proprio qui che si rivela quel rovesciamento di cui parlavo all’inizio. Pur con poche presenze evocatrici si attua una serrata contrapposizione tra tensioni diverse di una spazialità che tende a non avere limiti, a debordare al di là della fisicità delle pareti e, di rimando, ad una prepotente costrizione all’interno dello spazio stesso della sala espositiva. C’è in tutto ciò il ricordo di una “coincidentia oppositorum” riletta come elemento di più suggestiva permanenza della tradizione spaziale romana, non solo della cultura barocca, ma dell’intera tradizione classica. Quegli aloni di luce, quell’intravista espansione luminosa per irradiazione in cui si rapprendono come grumi di materia poche figure quasi “imbozzolate” nella loro gestualità, nei loro movimenti indicati e raggelati sino a renderli corpi immobili, in uno spazio liquido, parlano di un rapporto serrato con la città, con la sua cultura più esoterica. Rammemorano così la fissità imposta da pochi elementi, come avveniva per le grottesche riscoperte nel cinquecento nella Domus Aurea, in cui si libravano cantucci di grande libertà fuori dallo schematismo della fissità dell’impaginato, giù sino all’esperienza musiva della grande tradizione artistica rimessa a valore, nel suo ritrovato connubio tra arte e architettura, nella migliore esperienza della tradizione del moderno tra gli anni trenta e quaranta, come nelle palestre del foro italico. Ed è in questa ritrovata duplicità, in questa perseguita ambiguità tra interno ed esterno che si dispiega, proprio con i mezzi della pittura il senso di un fare “altro” in nome di un riscatto per non essere soverchiati dall’apparente dilagare di un assunto imperante, oggi come allora, in cui si potrebbe erroneamente ritenere, come accadde per la scultura: “la pittura lingua morta”.

Francesco Moschini.

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I corpi dell’Opera

 

Nella rappresentazione mentale, che ci facciamo dell’artista, alcune delle sue caratteristiche specifiche sono quelle dell’unicità e dell’incommensurabilità. D’altronde ciò e molto comprensibile, poiché l’artista e abitato da altrui, e teso alla produzione di opere di cui nessuno sente la mancanza, che elabora come in assenza delle impalcature razionali. Questa almeno l’immagine che la vulgata antropologica elabora di questa figura mitica. Nel caso di questa mostra bisogna abbandonare parte di questi schemi e conciliarci con l’idea che le opere sono state elaborate da due persone, che l’organizzazione dello spazio e vincolata a due messaggi visivi del tutto differenti tra loro ma che interagiscono, che in fondo c’è stato bisogno di un vero e proprio metodo per realizzare l’incontro dei due ingegni. Emuli di altre rare coppie sparse nella letteratura (poiché in arte e in musica l’incontro di due creativi fa parte della prassi di comune divisione dei compiti), come quelle di Deleuze e Guattari o dei fratelli Goncourt e altrettanto scandalosa, la coppia Chiricozzi-Pietrosanti ha realizzato opere unitarie ed eleganti. Il primo pensiero che si forma alla vista di queste opere e la completa mancanza di sutura tra i linguaggi dei due artisti. E’ avvenuta un’operazione di vicendevole denudamento e fusione, in realtà molto rara nel mondo della cultura, che in genere propugna personalità molto caratterizzate e tendenzialmente uniche. Le figure di Chiricozzi non sono state vestite e ambientate da Pietrosanti, ma sono cambiate nella loro intimità. Questi corpi sono, al contempo, più concreti e più trasparenti. La loro massa e meno densa di materiale umano, la loro postura più esplicita. Nello stesso tempo i! dialogo che reclamavano i corpi di Chiricozzi e per un attimo sospeso. E’ come se questi corpi volessero parlare con noi, ma non ascoltare più. Gli sguardi sono taglienti, indicano direzioni; i volumi sono sempre inequivocabili, ma queste figure sono perfettamente spettrali, puri fiori della mente come avviene di consueto nei lavori di Pietrosanti Quest’ultimo detta il tono. Il più alto, perché derivato da una profonda sapienza dei materiali, soprattutto la sensibilità all’ascolto dei sussurri della materia, per cui l’opera ha da insistere, sovrapponendosi infinite volte a se stessa e verificandosi, per essere certa di poter durare. Giungere infine a una forma cosi vissuta dall’uso da non opporre più resistenza. Qui la più improbabile delle sintesi, quella tra il ruvido Chiricozzi e il liscio Pietrosanti.

A proposito del metodo, e chiaro che il contenitore culturale atto ad ospitare delle personalità cosi differenti doveva per forza essere reperito in una figura archetipa. L insieme espositivo e veramente un percorso iniziatico, con la prima figura che difende (e mi piacerebbe usare questo termine con la valenza francese, dove significa contemporaneamente difendere e proibire) l’accesso alla mostra vera e propria. E’ lo stalker che avverte di non entrare nella zona, come succede nel film di Tarkovskij.

La seconda figura è già calata in territorio simbolicamente orientato e mostra quella che la psicanalisi chiama la condizione dello specchio. Il soggetto trova un analogon e ha, verso questo, un atteggiamento duplice. Da una parte l’accettazione, dall’altra il rifiuto. La seconda parete non è doppia perché presenta due oggetti, ma la duplicità e quella del soggetto stesso che non può non essere rispecchiata dal mondo. (Le potenze) “rinviano a Dio in Dio – oltre a consegnare se stesse a Dio- (…) protese a Dio in Dio, (…) danno all’Amato la stessa luce e calore d’amore che ricevono”. Non c’è modo migliore delle parole di S. Giovanni della Croce (Fiamma d’amore viva. Mi,1993. p 101) per parlare di questo specchiarsi dell’anima nel mondo senza annettervi alcunché di dubitativo, alcunché di mondano. Questa figura e attratta dal mondo come da uno specchio. Non è più Narciso, non è ancora S. Girolamo che dialoga col teschio. E’ la figura del centro, incrinata dalla dialettica e dall’attesa dell’altro.

Il trittico si conclude ovviamente con una figura sintetica. L’impressione è quella di un danzante, ma guardando meglio la figura si scopre che non è solo un movimento di commento alla musica, bensì c’è anche la mimesi del volo, la tentazione dell’equilibrismo. Anche qui le categorie investigate sono molteplici e ne ho trovato una giusta sintesi nella figura del beato come la traccia Maria Zambrano: “non appena si fa visibile è giudicato per un’altra cosa.(…) che la sua mansuetudine non trascenda (…) Nè quel suo modo di muoversi, di avanzare senza mutare, di retrocedere senza cautela, quel suo movimento libero da mutamenti, la sua consustanziale quiete. Nè la sua sofferenza che è patire nascosto” (I beati. Mi, 1992, p.67). Le categorie sintetizzate ovviamente sono tra le più antagoniste tra loro. L’unione tra le caratteristiche è stabilito dopo la fisica greca: il movimento è apparentato con la modificazione, la stasi con la perseveranza e tutti e quattro questi elementi fusi nell’essere, nell’unione di verticale ed orizzontale.

Fin qui una lettura dell’opera pacificata, come se Chiricozzi e Pietrosanti credessero ancora ad una simbolica. In realtà c’è un corpo a corpo con l’opera che ha da essere ancora descritto. Troppo facile sarebbe rinchiudere (e aver prodotto) questa opera tentando una cosmologia. C’è dell’altro. Innanzi tutto il titolo. Migranti sta a ricordarci che queste figure sono state dipinte, che c e una pace mancante che reclama rappresentazione, che il secolo appena concluso sconvolge le polverose categorie dell’alchimia. L’opera è deposito, resto solido che scende dopo la trasmutazione e l’incontro dei materiali e si condensa nell’opera. Ma qui la creatività deve articolarsi in estetica ed essere consumata dal linguaggio dell’arte. Da questo punto di vista l’opera si propone come oggetto di scambio solido da realizzare.

Il mondo greco costringeva ad abbandonare la città chi si fosse macchiato di una colpa grave. A queste persone, e al poeta come è scritto nella Repubblica di Platone, veniva data una pietra con il loro nome scritto sopra. Questa pietra del viandare era chiamata ostrakon. Soffermiamoci un attimo su di essa. Il nome dell’esule vi era vergato sopra perché nessuno lo pronunciasse più: la sua lingua sarebbe diventata di pietra. L’esule diventa la persona il cui nome non verrà più chiamato da nessuno. Avere un nome impronunciabile è mancare di comunità, di patria. Per il mondo greco ciò era peggio che morire: precisamente era una morte continuata e continuamente ribadita da tutto il mondo circostante. Mi sovviene anche lo zen:

nel suo simbolo il punto bianco nella campitura nera e quello nero nella campitura bianca sono l’ostrakon: resistere mentre si è circondati da inimicizia. Per questa patria, per questa opera irraggiungibile si sta in terra come in un altrove. Questa parte al posto del tutto, questa metonimia della patria, è il granello di sabbia penetrato nell’ostrica.

La stritolerà.

Chi parte non muore per colpa della distanza, ma per lo struggimento nostalgico che gli causa quel pezzo di patria che giace in fondo a una tasca, con i pelucchi di lana, lo sfilacciato tabacco e una fotografia cosi lacera che non alimenta più il ricordo. bensì il rimpianto.

Opera, perla, ostrakon, patria, rimpianto, missione. Questo il vocabolario dell’artista che ancora una volta deve giocare la messa in scena della produzione del quadro. Da questo punto di vista l’artista non potrà mai accondiscendere ad una sistemazione simbolica del suo percorso ideativo: per lui resta e sarà sempre vita da condurre in opera. Con gratitudine. Come in questo caso.

 Paolo Aita

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Opera a due teste

 

Nel nostro secolo vediamo come l’opera d’arte, in genere, guardi non tanto all’aspetto formale, quanto piuttosto al processo, come cioè semplificando, il rapporto fra mezzi e autore dia valore a condizioni sempre mutevoli e, anche volutamente polivalenti, spesso usando come mezzi di rappresentazione le sue stesse implicite contraddizioni.

Ciò, per non pochi versi dà origine alltinterno di un’opera ad un sistema di relazioni in cui le forze messe in atto coniugano queste stesse contraddizioni in un organismo sintattico comunicativo dalle molte facce, ma pur tuttavia i molti significati e sensi attivati sono sempre rispondenti ad una regola o criterio formativo. Non si tratta dunque e soltanto di questioni linguistiche, quanto piuttosto di un gioco di forze, come si diceva, di un vero e proprio campo d’energia, comunque sempre conchiuso all’interno del confine grammaticale e sintattico che governa il processo.

L’opera assolve, si può azzardare, al compito di attivare un complesso dispositivo interattivo nel quale tal esercizio di forze si compone con quelle del suo necessario osservatore La natura aperta, polivalente dell’arte ha proprio questo compito, di consentire una con-vivenza” d’osservazioni, un reciproco dialogo fra intendimenti. L’opera, come un vero sistema elastico di relazioni, è dunque sempre “a due teste”. La risultante in quest’incontro scontro fra autore e osservatore si compone in un luogo “altro” dall’opera, al di fuori della sua forma e consistenza fisica, al di fuori del “luogo” dell’osservatore, al di fuori del “luogo” del suo esecutore.

Ancora di più lo fa, come in questo caso, quando il dialogo fra i due soggetti, le due teste necessarie all’esistenza e funzionamento dell’opera, è già risolto dall’opera stessa, all’interno dei suoi confini fisici. Non si tratta, credo fermamente, di un lavoro a quattro mani, ma proprio “a due teste”, che guarda, assecondandone i movimenti, al processo formativo di un testo visuale autonomo, vale a dire indipendente e dotato di leggi proprie, ma i cui potenziali comunicativi, compresi senso e “forma”, devono anche, a tutti i costi e sempre, transitare per i vagli anch’essi autonomi e indipendenti di due apparati vocali, due sguardi, due sistemi espressivi, indifferentemente senza gerarchie o privilegi precostituiti di primato dell’uno artista sull’altro.

L’operazione, inoltre, asseconda un procedimento che, per comodità, potrebbe essere indicato come oscillatorio, poiché cosi come “due teste”, questo lavoro ha anche, con cui fare i conti, due baricentri individuati propriamente non dal coabitare, quanto dal civilmente “con-vivere” al suo interno dei due registri espressivi.

Altra oscillazione è quella, meno evidente, fra la valenza di natura del tutto “implosiva ” del testo visivo (senso e significato non fuoriescono dalla sua pagina di redazione) e quella “esplosiva” del procedere “migratorio” (vedi titolo) di un apparato linguistico nel territorio, per l’appunto, dell’altro, e viceversa.

La risultante totale dei lavori delinea un ambito di nuova territorialità la cui morfologia è disegnata dalla “diversità” e molteplicità; così come la sua “vita” governata dalle differenti leggi, lingua, modelli, codici generati, per l’appunto, da diversità di visioni, idealità, assunti, scuole, postulati, referenti….

Un ambito di realtà, è quella del mondo, in cui le convinzioni dell’uno non prendono il sopravvento sull’altro, e viceversa. In cui non esiste bisogno di visti o di garanzie, tanto meno di passaporti; in cui la realtà si compone non per forzate e casuali o forzose giustapposizioni coabitate, ma più civilmente e umanamente progettando, con una possibilità di “migrazione”. dell’Uno all’Altro, la realtà di una concretabile “con-vivenza”.

 Mario De Candia

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Elogio di chi lo sa prima

 

Nessun recinto è fatto di salsicce è una espressione ungherese usata per dire che non c’è posto al mondo in cui stare comodi. E ciò nonostante i sogni del sogno, ogni giorno nasceranno e sempre torneranno a morire, ma mai cesseranno di esistere.

Il viaggio inizia quando ti addormenti ascoltando vuoti silenzi, quando gli omaggi floreali ti danno la giusta  sepoltura e quando il solo marmo conserva la tua leggenda. Il saccheggio della materia preziosa sarà vendicato dai conquistatori ai quali è stata sequestrata la memoria. Chi è condannato alla diaspora non è neutrale visto che sceglierà il paese da abitare. Il lume procede violando l’oscurità, a colpi d’ascia si fa strada fra i dubbi, a volte socchiude gli occhi e abbassa lo sguardo per paura di contagiarsi.

Il viaggiatore è un uomo indurito dalle corse, non si stanca facilmente, il suo pericolo è quello di restare incatenato dalla bellezza, quando tutta è rivelata.

Il desiderio di unità crea la misura esatta del confronto che nasce dai gesti di ogni giorno, nel guardarsi I guardare dell’altro. Procedere accompagnati significa poter lasciare da parte elementi che l’altro potrà recuperare liberamente e dopo il lavoro continuare in solitudine.

I fili si intrecciano insieme e a turno, dritto, rovescio, alcune maglie si lasciano cadere e a volte si forma un nodo. In questa trama alcuni fili penzolano per poi riunirsi ancora, come tutte le cose in natura si tagliano perché ricrescano più forti.

Dell’incontro fra i due resta il peso di un terzo, molto grasso dentro. Chi lo seppe prima mandò delle spie a negoziare, ma invano.

Quando la luna vorrà, sarà attuata la nuova ordinanza così che chi ha imparato a rubare lo insegni.

Eva Coen

14/03/2000